Gabriele Tinti - Universal Embassy

Cristiano Berti si rivolge alla recente storia del Novecento da una posizione nietzschiana, con l’idea cioè che “solo in quanto serva la vita” è legittimo “servire la storia”.
Egli sa bene che la storia si è fatta irrimediabilmente debole, non più la magistra vitae consegnataci dalla tradizione –perchè il reale ci ha mostrato l’illusorietà di una morale storica- né tanto meno lo strumento educativo -ereditato dal XIX secolo- a servizio del potere.
Alla storia, al suo sguardo, non rimane difatti che ritrarsi all’interno della sua specifica funzione di custode della memoria, delle varie e mutevoli identità collettive.
Cristiano Berti si occupa da tempo di tutto ciò, prediligendo particolarmente la memoria delle comunità in ombra, di quel sociale destinato a passare la propria esistenza sotto silenzio, su territori underground. L’artista dunque porta con se, nell’azione creativa, l’accezione classica, greca, del termine storia (ìstoria) che sta a significare proprio indagine, inchiesta, curiosità. Esattamente su questi presupposti concettuali egli costruisce l’opera.
Occasioni dell’indagine fotografica che ci viene proposta in mostra sono le desolanti immagini delle Ambasciate somale abbandonate a se stesse. Luoghi di esercizio della diplomazia, tipico esempio della stabilità e dell’organicità che questa ha assunto in epoca moderna, di un paese giovane che -nel 1991 dopo poco più di trenta anni di vita, in seguito ad una tragica guerra civile- si è dissolto in un controverso governo di transizione.
Da allora la Somalia è diventato un territorio privo di uno Stato e le sue legazioni si trovano a rappresentare un Paese che non c’è più, che improvvisamente si trova escluso dai quadranti della politica internazionale e dall’interesse dei media. A testimoniare la sua esistenza restano appunto, sparse nel mondo, le costruzioni che ospitavano le sue ambasciate che, in alcuni casi si mostrano come contenitori svuotati, privati della loro originaria anima; in altri diventano piccole isole di legalità e di identità nazionale fino a giungere al paradosso dell’Ambassade Universelle di Bruxelles che accoglie i sans papier, ridefinendo così, in maniera spontanea e simbolica, il principio di extraterritorialità che animava la defunta rappresentanza diplomatica.
Cristiano Berti fotografa queste palazzine quasi come a voler censire il patrimonio immobiliare di uno dei Paesi più poveri del mondo, per mostrare la convenzionalità e l’arbitrarietà dei concetti di Stato, territorio e diritto di soggiorno come sono venuti caratterizzandosi nel mondo occidentale durante tutto il XX secolo. Per porre in evidenza un imprevedibile –sia pure localizzabile e momentaneo- ritorno alla temporaneità e alla precarietà delle istituzioni statuale contemporanee. Egli dà quindi voce ad una memoria collettiva oramai anestetizzata facendone il proprio, privilegiato, attivante fabrile; per dirci che la memoria è sopratutto oblio, continua dimenticanza, intima e necessaria finzione.
Berti ci restituisce –già da tempo- gli spettacoli dell’attuale nei termini di metafisiche finestre aperte sugli eventi più in ombra, feedback costituenti la realtà smemorata rispetto quei particolari accadimenti. Un reale quindi, quello descrittoci dall’autore, che tende a vestirsi sempre di nuove e controllate evidenze, di sempre differenti maschere quasi come fosse il palcoscenico depresso di visioni frustrate e troppo spesso taciute.
L’indagine storica diventa perciò davvero debole. Sopravvive come memoria ma nel contempo esprime la propria incapacità di porsi ancora una volta, con autenticità, quale coscienza critica del sociale.
Attraverso il passo trasversale e scomodo della propria creazione artistica, Berti sogna di poter superare l’impasse di un intero atteggiamento del pensiero contemporaneo.

© Gabriele Tinti, 2006
da: Cristiano Berti – Universal Embassy, leaflet della mostra, AOCF58, Roma, 2006