Ugo Castagnotto - Costruendo una nuova evidenza

Memorial dovrebbe o potrebbe intitolarsi il malinteso. Infatti ciò che l’opera comunica, in quanto arte, non è ciò la foto documenta o racconta. Questa differenza è il senso estetico dell’uso che Berti fa del linguaggio fotografico.
Dal malinteso nasce l’azione sullo stile. L’intervento va tanto più a fondo, ad incidere come un bisturi nel senso comune, quanto più corposa è la polpa di ciò che normalmente si ritiene essere la realtà. La fotografia questa pesantezza ce l’ha, più degli altri linguaggi artistici, perché viene spesso scambiata per la realtà: almeno, si ritiene che serva a documentarla fedelmente. Così succede che, quando dall’autore di Memorial viene raccontata la cronaca che c’è dietro le immagini, il primo impulso è di “prendere” per buono che la forma narrativa sia la forma dell’opera.
La gravità del tema rende sconcertante che l’artista stia facendo un’operazione estetica. Diciamolo più chiaramente: una lezione di stile. Stile è prendere distanza dal linguaggio stereotipato e dalla sua pretesa di essere la “fotografia” della realtà.
I poeti simbolisti, che per primi hanno avuto il senso di essere avanguardia e della missione “rivoluzionaria” del linguaggio poetico, hanno per questo teorizzato il significato poetico come una distanza irriducibile tra parole che il senso comune ha reso uguali. L’impossibilità di spiegare la poesia con una parafrasi, rende il valore limite di questa prossimo al silenzio, all’assenza, allo zero semantico. Le successive avanguardie brancolano tutte quante in questa zona buia del linguaggio. Quando cercano di avere visibilità e legittimazione, sono costrette ad esprimersi attraverso la voce dei “movimenti”, voci collettive a cui l’artista delega il compito di mettere in chiaro, con parole di tutti, il nucleo tenebroso dell’opera. Fin dove tutto ciò è applicabile alla fotografia?
Non si possono scattare foto senza luce. Il chiaroscuro del significato artistico non è necessariamente quello delle foto d’arte esposte nelle vetrine dei negozi di macchine fotografiche. Se vi sono ombre, il passante crede, giustamente, che fosse l’ora tarda o l’ostacolo di una parete a rendere suggestiva l’esposizione delle solite cose. Il crepuscolo è nel paesaggio, non in una zona chiaroscurale dei nostri concetti. L’attribuzione di senso alla macchina fotografica, anziché al fotografo, non è colpa di nessuno, se non dell’illusione che questa ci da di essere in presa diretta con la realtà. Dire il contrario, dire che la foto non documenta, è remare contro corrente.
Ma dove trovano spazio, un proprio spazio, la poesia, l’arte, dentro la foto, se non in ciò che non documenta?
Il valore stilistico non è in ciò che deve essere raccontato, ma nello scarto “espresso” dalla non presenza. Nel significato assente.
Da qui un’evidente conseguenza: non ha importanza chi ha fatto le foto e a quale gusto siano improntate. Non sono foto d’autore. Come nel gioco dei tre bussolotti il senso non è nella foggia dei bussolotti, ma nello sconcerto di scoprire la sostituzione della pallina. Per rendere più attraente l’esca, Cristiano Berti ha messo nel bussolotto non una pallina, ma qualcosa di pesante come un mattone, per farlo scomparire. E’ quasi impossibile non cascare nella trappola di attribuire al racconto un senso letterale di documentazione di fatti che incutono contrizione; di essere chiamati a condividere sentimenti di esecrazione e di compunzione. Il pericolo per Berti, di essere vittima del sussiego morale, è molto concreto. Il comune sentire “politically correct”, la moderna forma di pedanteria, è portato a vedere una volontà di denuncia e di impegno dovunque ricorrano i simboli che ha banalizzato; e prende un granchio, né più né meno degli adolescenti adescati dalle campagne sociali di Oliviero Toscani per Benetton. La corposità morale del tema è invece un segno della mano leggera dell’artista nel sostituire la realtà.
Ogni opera d’arte è una sostituzione del reale. Qui sta il bello e lo stile. Quando è esplosa l’arte innovativa degli impressionisti, si è visto in quel nuovo modo di concepire i fenomeni fisici, fra le altre cose, anche un salto mentale reso possibile dalle nuove teorie sulla materia, intesa non più come qualcosa di pieno e fermo, ma come un divenire di rapporti. Non è così anche la forma? In tempi più vicini a noi, quando è tornata calda la fotografia d’arte, negli anni Settanta e Ottanta – penso a Cindy Sherman e affini – ci si è trovati a fare i conti con l’espressione “documentare la realtà”. Hal Foster, in un originale studio critico sulla rinascita della foto nell’ultimo quarto di secolo, intitolato non a caso The Return of the Real (1996), mette a fuoco il problema del referente, non solo della fotografia, ma di tutta l’arte, parlando di “sostituzione della realtà”. Grazie a questo uovo di colombo, l’arte americana del dopoguerra viene riordinata infilando le perline in un ordine dettato non dalla materia del contenuto, ma dalla forma dell’espressione. Da questa grammatica minimale del sistema dei segni, il critico americano fa discendere direttamente quella estetica della fotografia, nel tempo più vicina a noi, che, come l’arte minimale, “documenta” (in questo caso si può ben dire) la materia che utilizza, la carne dell’opera. Foster considera Richard Prince (quello che ha rielaborato il soggetto dell’icona Marlboro Country) non come un epigono della Pop Art, e nemmeno in qualità di iperrealista. E’ possibile convincersi di questo non appena si ammetta che ha documentato altro dall’icona pubblicitaria a tutti familiare: ne ha ritratto il vocabolario. Il letteral-materiale della foto è privo di funzione, come una chiave senza serratura, una croce senza il Cristianesimo. Svuotandolo di significato, l’intervento dell’artista lo rende autoreferenziale.
Dal riscatto della fotografia negli anni Ottanta ad oggi vi è stata una irradiazione di percorsi sperimentali in molteplici direzioni. Per queste linee di fuga si è determinata una vera e propria deriva, un viaggio di scoperta in tutte le direzioni con in comune un’unica bussola: la ricerca stilistica. La spiaggia da cui allontanarsi, l’ipoteca concettuale.
Ci limitiamo a due esempi emblematici che, collocandosi ad estremità opposte sul piano dell’ispirazione, mettono entrambi l’accento sulla sottrazione della “cosa” in sé e del suo antagonismo con l’immagine. The Atlas Group, al secolo Walid Raad, colleziona immagini dei modelli di autovetture utilizzate come auto-bomba in Libano, ricercando nuove evidenze per fatti dotati di per sé di forte verosimiglianza oggettiva, come quelli della guerra. Molto lontano da questo tipo di ispirazione troviamo Lucinda Devlin, che nel ciclo “The Omega Suites” ritrae gli ambienti delle esecuzioni capitali facendone un’esperienza estetica formalmente “curata”. Il primo tratta l’immagine come referente storico. La seconda, al contrario, esprime uno stato inerziale dell’immagine. Sono processi molto diversi, ma sempre concentrati sullo stile, perenne gioco a nascondino tra forma e contenuto.
L’indagine di Memorial verte invece sull’espianto della materia espressiva dal contenuto narrativo. La realtà poetica del lavoro di Berti non sta in tracce poste nel campo visivo dall’artista – penso ai fondali fotografici narrativi di Hamish Fulton – e neppure nel semplice scarto linguistico con l’icona, alla Devlin (Berti fa qualcosa del genere in Sweet Home, dove alle immagini di salotti accoglienti, confezionate come per una rivista di arredamento, sono associati i diagrammi di rilevazione del radon, un gas radioattivo naturale presente ovunque). La scommessa estetica di Memorial si gioca nel punto esatto dove la ricerca della forma espressiva giunge all’appuntamento “mancato” con la realtà materiale dell’evento. Non ha niente del concettualismo, e va più d’accordo se mai con la forma “vissuta” come l’esperienza materiale della forma, la forma incarnata che scandalizza in Nitsch e in Gina Pane.
Lo stile sta nel modo in cui la realtà si nasconde e l’arte costruisce una nuova evidenza. Il piacere estetico come involucro materiale di un contenuto tragico diventa profondamente imbarazzante. L’artista ci toglie dall’imbarazzo sottraendo il contenuto, non documentabile. Se il reale fosse un fiore non ci sarebbe nessuna riserva mentale a parlare di bello. Parlare di un bello che passa attraverso il dolore è un modo temibile di correre il rischio di artista, sulla propria pelle.


© Ugo Castagnotto, 2004
da: Memorial, catalogo della mostra, Centro Studi Piero Calamandrei, Jesi, 2004