Luigi Fassi - Alternate Takes

I nuovi lavori fotografici di Cristiano Berti sono il risultato di una radicale riflessione sul ruolo della memoria e del suo rapporto con lo spazio urbano. Oggetto di questi scatti è una parte di territorio del parco della Pellerina di Torino, lungo il viale di corso Regina, divenuta nel corso degli anni Novanta teatro di lavoro di un foltissimo gruppo di prostitute africane, per lo più di provenienza nigeriana. Durante quel decennio ebbe luogo da parte di esse un singolare fenomeno di appropriazione professionale e antropologica del territorio, in quanto le aree di lavoro del parco, nelle ore serali e notturne, erano state classificate in tre zone distinte, a seconda dell’avvenenza delle ragazze. La terza categoria, quella più a buon mercato per i clienti, venne ironicamente denominata Iye Omoge, un termine nigeriano adoperato per indicare donne desiderose di manifestare, invano, un’avvenenza giovanilmente sensuale. Di tutta questa complessa vicenda sociale ed economica, in cui una porzione consistente di area urbana è stata riordinata e rinominata attraverso codici semantici e linguistici propri di una cultura africana, oggi non rimane alcuna traccia. Il parco è stato “bonificato”, le prostitute operano da tempo altrove e gli automobilisti e i pedoni transitano su quel tratto di strada indifferenti al suo curioso passato. Anche il termine Iye Omoge è ormai solo un fossile linguistico, irreperibile nella quotidianità di chi oggi frequenta il parco e privo di ogni aderenza fattuale al territorio. Berti proprio per questo sceglie Iye Omoge e lo elegge a materiale simbolico privilegiato, come una sorta di raffinata esca concettuale per riflettere sulle idee di stratificazione culturale, di memoria e di temporalità. Come funziona la memoria? Quali tracce lasciano gli eventi nei luoghi in cui ci muoviamo? E ancora, che rapporto si instaura tra noi e gli spazi? Sono queste le domande che ci pongono le immagini apparentemente inerti e indifferenti presenti in mostra. Esse permettono un’insolita e sorprendente pratica di anamnesi urbana, la possibilità cioè di riaccedere alla memoria di eventi passati in un luogo dove sono state esercitate operazioni culturalmente sofisticate. Questo esercizio di Berti può essere definito estremo in quanto lavora su una dicotomia radicale tra la memoria del luogo e la mancanza assoluta di elementi indiziari per potervi accedere dal presente. Le immagini non offrono spunti di sorta, sono una pura presenza rassicurante, una fenomenologia tutta contingente di quotidianità urbana. Così la memoria per Berti si rivela un’attività prevalentemente intellettuale, svincolata da ogni residuo di natura percettivo-materiale. Paradossalmente, quella perseguita dall’artista è una memoria senza ricordo, lontana dalla fertile fissità della singola immagine rivelatrice, tanto cara alla cultura proustiana e ottocentesca. Nella pratica artistica di Berti, segnata da una matrice fortemente filosofico-speculativa, sembra piuttosto riverberarsi in parte la riflessione di Henri Bergson sulla natura radicalmente intuitiva della memoria. L’immagine statica e singolarmente definita del ricordo è per Bergson da svalutarsi in quanto prodotto dell’analisi raziocinante a cui sfugge la realtà piena e fluente della memoria. Da qui l’idea della mobilità della durata come sola fonte rivelatrice delle reali dinamiche temporali interiori ed esteriori. “La durata interiore è la vita continua d’una memoria che prolunga il passato nel presente”, argomenta Bergson, e ciò è altrettanto vero in Berti, le cui fotografie, grazie allo sforzo rammemorativo voluto dall’artista lasciano “durare” nel presente il singolare passato del territorio. Anche le cartografie meticolosamente intagliate, in cui vengono evidenziati corsi d’acqua e viali pedonali nel parco, sono la tessitura più evidente di uno sforzo al tempo stesso cognitivo ed emotivo, tutto teso alla ricerca di una possibile sutura tra passato e presente. C’è una quarta foto in mostra, Alternate Take, un’immagine inusuale di Torino, scattata alzando la prospettiva visuale proprio dal viale alberato di corso Regina limitrofo al parco della Pellerina. E’ quasi un riverbero elegiaco, il segnale ultimo di una ricerca obliqua e spiazzante, che allude e non dice, non cerca risposte definitive ma rivela l’infinita possibilità prospettica dello sguardo e della memoria. L’artista pare così slittare da un freddo interesse antropologico ad un piano esistenziale, in cui la dimensione della rammemorazione diventa sensore emotivo di tutti gli aspetti più poeticamente densi del nostro vivere. E’ la soglia che segna tutta la distanza tra un’indagine e una narrazione, tra un’analisi e un’emozione. E non è difficile intuire dove vada a cadere la preferenza di Cristiano Berti.

© Luigi Fassi, 2006
da: Cristiano Berti – Alternate Takes, leaflet della mostra, Carbone.to, Torino, 2006