Cristiano Berti - Black Torino

Ricordo la fotografia di una ragazza nigeriana, vista nei primi anni Novanta. In posa davanti allo scaffale di un supermercato torinese, fiera di potersi mostrare in mezzo a tanta ricchezza: una foto fatta per i parenti a casa, per rassicurarli sul buon esito dell’avventura. È così che ci si condannava ad un futuro di pressioni e intromissioni da parte dei famigliari, mostrando uno scenario di benessere e alimentando l’illusione di esserne entrati a far parte. In seguito le comunicazioni veloci e la circolazione delle immagini hanno ridotto l’ampiezza di questa idea, che qui le ragazze stavano bene, e che se non spedivano soldi a casa era solo per egoismo. Ma solo un poco, perché, come dice il proverbio, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.
Le ragazze nigeriane sono arrivate a Torino nel 1987, forse la prima parte d’Italia a vederle comparire, forse preceduta di qualche mese dalla zona di Caserta. Capire dove siano arrivate le prime ragazze, e perché, spiegherebbe molte cose, ma nessuno si è mai posto seriamente il problema. Fin dall’inizio erano presenti queste caratteristiche: che le ragazze erano tutte avviate alla prostituzione, che tutte dicevano di aver contratto un debito, che tutte erano sfruttate da una donna più anziana, detta madàm, erano in condizioni di sudditanza psicologica e ritenevano di essere vincolate all’obbedienza dai riti juju a cui si erano sottoposte, che tutte pagavano, oltre al debito, alla stessa donna, il vitto, l’alloggio e il diritto di occupare un pezzo di marciapiede (il “joint”). Quasi tutte erano di Benin City nell’Edo State, una città grande ma non come Lagos o Ibadan: la città gemella di Torino, dagli anni Novanta in poi, molto più di tante altre, scelte per i gemellaggi ufficiali. Fino al 1990 vivevano in pensioni o piccoli alberghi nelle zone attorno alla stazione di Porta Nuova o al mercato di Porta Palazzo, lavorando a Torino, nei dintorni, in tutta la regione e anche in altre regioni limitrofe, facendo in tal caso centinaia di km in treno per raggiungere il posto di lavoro. Poi, repentinamente, si spostarono in alloggi trovati da clienti e amici italiani. E un po’ per volta si sparpagliarono per la città così come poco a poco si erano insediate in altre città italiane.
La comunità nigeriana diede vita a una serie di attività informali, oltre alla prostituzione. Negli anni Novanta era facile trovare donne nigeriane che giravano per le case, oppure stazionavano ai margini dei mercati rionali, per vendere cibi e farmaci provenienti dal paese. Compravano le scarpe e Napoli, le vendevano a Benin City, compravano il pesce secco e le creme sbiancanti per la pelle a Benin City e le vendevano a Torino e nelle altre città italiane. Fecero la loro comparsa le prime parole di pidgin italian: papagiro, per definire l’uomo italiano, spesso anziano (papa) che le accompagnava gratis in macchina (giro), bigliettoprego, onomatopea per il controllore dei treni, centrò, per il bel ragazzo nigeriano assai richiesto. Ed espressioni più complesse come “She dey sale!”, che letteralmente sta per “Lei sale!” e significa “ragazza molto richiesta”. Potrebbe essere detto di un’amica che sta ricevendo una telefonata dopo l’altra, ma arriva dal vocabolario di strada: “sale” è italiano e sta per “sale a bordo di un auto”, e quindi “She dey sale!”, sta per “fa molti clienti (oggi)”.
La presenza delle donne nigeriane ha cambiato profondamente la città in cui sono nato e ho vissuto a lungo. Torino era una città decisamente provinciale, fino agli anni Ottanta e fino all’arrivo dei primi immigrati da paesi lontani. All’interno del composito mondo dell’immigrazione insediatosi in città, questo frammento della grande diaspora nigeriana si è distinto per l’impatto che ha avuto sull’esperienza diretta e sull’immaginario dei suoi abitanti. È un discorso che andrebbe approfondito, ci saranno altre occasioni per farlo.
Il mio lavoro Iye omoge racconta la storia di un luogo di particolare importanza nell’incontro tra le donne nigeriane e la città di Torino, il controviale di Corso Regina Margherita lungo il parco della Pellerina. Per tutti gli anni Novanta questo è stato il palcoscenico della prostituzione nigeriana, il più famoso d’Italia. Ogni notte, sui suoi ottocento metri di marciapiede, stavano oltre duecento donne e ragazze. I rapporti sessuali erano consumati all’aperto in zone appartate del parco, oppure spostandosi di poco con il cliente in auto.
Quando ho realizzato questo lavoro, tra il 2005 e il 2006, non vi erano più Nigeriane nella zona. La decisione dell’amministrazione comunale di chiudere al traffico notturno il controviale, e le prime contravvenzioni ai clienti, avevano avuto l’effetto di sparpagliare le presenze lì d’attorno, oppure decisamente più lontano. È verosimile che tale decisione sia stata presa in vista delle Olimpiadi invernali del 2006, essendo Corso Regina Margherita una delle principali arterie di traffico e una porta di ingresso nella città, appena usciti dalla tangenziale.
Fotografare Corso Regina all’inizio del 2006 non è stato casuale. Volevo fare qualcosa di tenero e rarefatto per l’ultima mia mostra nella galleria di Guido Carbone, molto malato e che sarebbe morto di lì a pochi mesi. La mostra la inaugurammo durante le Olimpiadi di Torino, preparandola velocemente e scattando l’ultima foto, quella grande presa da una piattaforma aerea, proprio all’ultimo (vi si intravvedono gli stendardi della manifestazione). Tornare ai fantasmi nigeriani di Corso Regina è stato il mio personale antidoto alla retorica da cartolina del periodo. Ho voluto ripescare dallo stagno dell’oblio un sasso di forma strana e affascinante, una parte della storia di Torino nascosta alla maggior parte dei suoi abitanti. Raccontare di quando le Nigeriane si erano divise il marciapiede in tre zone, chiamandole prima, seconda e terza classe, secondo l’età e la bellezza delle ragazze. In prima classe stavano le più belle, seminude, altissime anche grazie ai tacchi smisurati. Erano le prime se si imboccava il controviale nel senso di marcia. Subito dopo e senza apparente soluzione di continuità (ma le Nigeriane sapevano bene qual era il confine: un chiosco di bibite e panini) c’era la seconda classe. Le ragazze erano sempre belle, ma forse più giovani che belle. Meno altezzose, ugualmente svestite. Il cliente che avesse proseguito la marcia si sarebbe trovato poi, per un breve tratto, senza nessuna donna sul marciapiede di fianco. Superato il ponte sulla Dora, sempre il parco sulla destra, c’era infine la terza classe. Qui le donne erano più vestite, meno giovani, più economiche. Stavano un po’ arretrate dalla strada, al buio, ma poi si mostravano determinate. Erano quasi tutte già mamme, i figli in Africa con la nonna, ma raramente superavano i 35 anni. Questa era la terza classe, detta anche “Iye omoge” (“mamma bella” in lingua edo). Il nome africano l’avevano dato le ragazze all’inizio del viale, intendendo dire che quelle donne più anziane avrebbero potuto essere le loro mamme (la “mamma” di una “bella”) oppure che volevano mostrarsi più belle e giovani di quanto non fossero (la “mamma” che fa la “bella”, che si atteggia a “bella”).
Tutto questo mi era stato raccontato alcuni anni prima, al tempo in cui facevo l’operatore di strada per la prevenzione dell’HIV/AIDS, da una donna che aveva lavorato in Corso Regina. Ho ritrovato quella donna e mi sono fatto raccontare di nuovo la storia. Facendone lo spunto per Iye omoge le ho dato una dimora permanente, piccola e incompleta ma di cui vado fiero. Fino a poco tempo fa pensavo che nessun altro avesse raccolto notizia delle tre classi e ne avesse parlato. La cosa ogni tanto mi faceva dubitare della stessa verità dei fatti che mi erano stati riferiti. Non è questa forse una delle cose più odiose dell’oblio, arrivare al punto di dubitare della realtà? Ma l’anno scorso un amico mi ha segnalato il romanzo di Tony Alum, Images from a broken mirror (2008), e la presenza al suo interno di una breve descrizione delle tre classi di Corso Regina. Da allora si è fatto ancora più vivo il piacere di aver raccontato questa storia.

© Cristiano Berti, 2015
tradotto da: Smuggling Anthologies Reader, Museum of Modern and Contemporary Art, Rijeka, 2015, 257-259 (ISBN 978-953-6501-93-9)